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Violenza sulle donne e psicologia

 

 

 

 

Violenza sulle donne.  

Breve approfondimento psicologico sul tema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono molti i fatti di cronaca che parlano di donne-vittime, troppi. Alcuni rimangono in testa, qualcosa si insinua dentro, rimane nel profondo e nonostante le difese, lavora, spinge a un’urgenza di comprensione più profonda. Almeno così è successo a me.

Un altro femminicidio, uno tra tanti. Un’altra violenza sulle donna, una di molte; non più di quante succedevano tempo fa, ma ora se ne parla e tanto.

Rimangono dei commenti nell’aria, quei commenti che non mi convincono: “Ma lei cosa ci faceva ancora lì? Perché non se n’è andata prima?ecc….

Qualcosa lo ritrovo in seduta, con le mie pazienti. Da qui il bisogno di scriverne, per me, per loro, per noi.  Fare un punto, aprire interrogativi e riflessioni.

Quelle domande possono essere utili a chi le pone per distanziarsi, proteggersi cercando un ordine e illudersi che osservando delle "norme" si possa allontanare l’orrore, ma sottendono un pericoloso pensiero di concorso in colpa nel delitto, qualcosa che giustifica l’ingiustificabile.

La violenza agita sulle donne, testimoniata dai media trasversalmente in tutta Europa, sembra essere la drammatica conseguenza della messa in crisi dei valori dominanti, per i quali una certa violenza psichica e prevaricazione maschile sulla parte femminile della popolazione, erano iscritti nella “naturalità” delle cose (cfr. Bourdieu, 1998). 

Crollate le certezze che avevano sostenuto il pensiero patriarcale, la violenza, presente da sempre, è emersa in tutta la sua forza soprattutto perché le donne hanno sentito di poter dire, di poterne parlare, d’essere soggetti degni di poter contestare le immagini che avevano definito per secoli la loro identità.

Bordieu nel suo saggio sul dominio maschile, parla di violenza simbolica per delineare lo stato in cui le idee del dominante sono assunte dai dominati passivamente e inconsapevolmente, dando vita a un modello culturale per il quale i dominati pensano che le idee che li abitano siano frutto del loro pensiero, non di qualcosa pensato da altri. Lo chiarisce bene in questo passaggio:

“..il dominio consiste nell’assegnare alle donne la responsabilità della loro oppressione, insinuando, come talvolta si fa, che esse scelgono di adottare pratiche di sottomissione…o addirittura amano l’essere dominate, che godono del trattamento loro inflitto, per una sorta di masochismo insito nella loro natura” (p.50).

Non voglio qui dilungarmi nella storia che porta a una svalutazione della figura femminile, ma ritengo  necessario qualche breve accenno. L’uomo non è avulso dalla sua storia e dal contesto sociale in cui vive. 

Hillman ci illustra chiaramente come fu il mondo greco a porre le basi della considerazione della donna come essere inferiore, ma la riduzione donna=mamma è posteriore, l’esaltazione del valore materno è un prodotto dell’Ottocento. 

Rousseau con i suoi lavori pone le basi per un mito difficile da estirpare, di buona moglie come donna mite, semplice, dalla mente pronta, ma non brillante, che vive reclusa in casa, educatrice della prole soprattutto femminile a cui trasmetterà la necessità di “dominare i suoi desideri per sottometterli all’altrui volontà”. 

In Italia  i lavori di due storiche, Luisa Accaniti (1998) e Martina D’Amelia (2005) sono preziosi contributi per    comprendere il percorso storico che ha creato lo stereotipo della mamma italiana tutta propensa e dedita ai figli, soprattutto maschi.

Accati descrive il percorso d’affermazione del cattolicesimo e ne ripercorre la storia come fondante l’identità donna=madre. La chiesa della Controriforma, propone alla donne l’immagine potente e sacra di Maria, vergine e madre di Cristo e sovrainveste la donna in quanto madre, sminuendo i valori coniugali, minando il valore umano e passionale della coppia uomo-donna. 

Il peccato originale di cui Maria è priva (Dogma dell’Immacolata concezione)altro non è che la concupiscenza e tutto ciò sposta i valori matrimoniali dal piano della relazione tra coniugi al piano della procreazione , vero e proprio amore, senza concupiscenza della  carne. (Barducci, 2011)

Vengono sminuite la relazione donna-uomo e la figura paterna. Le donne si trovano con un unico punto di riferimento: la maternità di un figlio. La relazione madre-figlia femmina è chiusa su sé stessa, eliminando il padre come terzo e diviene ripetizione di un unico modello. La voce del Padre Confessore detta i valori alla madre e diviene rivale del padre terreno. Le figure femminili vivono una doppia mancanza: la relazione con la mamma in quanto donna e quella con il padre uomo. Solo il figlio maschio riesce a risarcire questa mancanza maschile, proponendo una pericolosa diede madre-figlio.

Con l’avvento del fascismo si accentua il culto della madre italica, prolifica di figli da donare al Duce. Si verifica il rafforzamento di movimenti  come la proiezione e l’identificazione con il figlio, alimentando ancora di più la centralità della coppia madre-figlio maschio che ancora adesso è sottilmente presente nella psiche femminile. I modi sono cambiati, ma una forte traccia della centralità della diede madre-figlio maschio si ripercuote nei legami tra madre e figlia femmina, che riceve rispetto al maschio, una narcisizzazione mancante, incompleta.

Jung parla del processo di individuazione ponendo il suo focus nel divenire soggetti, uomo e donna, capaci di uscire dalle maglie del collettivo, integrando per l’uomo i valori di Anima (affettività, emotività, consapevolezza del proprio mondo interno), valori negati nella cultura dominante e proiettati sulla donna, e nella donna integrare i valori di Animus (autonomia del pensiero, decisionalità, capacità critiche) proiettati sull’uomo. Alla luce di quanto detto finora appare un arduo passaggio.

Le donne che incappano in uomini maltrattanti sono diverse le une dalle altre, portano storie affini da certi versi, sostanzialmente differenti per altri. Ogni una ha una propria unicità, ma lo studio dei casi porta molte analiste ad individuare un elemento costante: la presenza di una psiche fondamentalmente “infantile”, laddove con il termine infantile si intende descrivere un modo di essere, una condizione psichica nella quale il legame con la madre è non solo preponderante, ma irrisolto e fondamentalmente conflittuale (anche se in apparenza può sembrare basarsi su una felice identificazione), segnato da ambivalenza, scissioni, in difficoltà nell’effettuare una separazione adeguata. (Balducci, Bessi, Corsa, 2018).

Tra madre e figlia si stabilisce una sorta di identificazione in cui i contenuti psichici della madre sono in toto assorbiti dalla figlia. Si attua in qualche modo un “trauma evolutivo” nel momento in cui per la bambina sarebbe necessario per evolvere, correre il rischio di delusioni, frustrazioni e sperimentare la propria tenuta psichica assumendo possibilità e limiti della propria soggettività, ed invece il processo si blocca e si opera una regressione/fissazione nel rapporto duale. La regressione impedisce così di sperimentare modalità differenti di rapportarsi con il mondo, ne nega addirittura la pensabilità. 

Il mondo intrapsichico “infantile”delle donne che subiscono maltrattamenti mostra carenze e a volte traumi nella relazione con entrambi i componenti della coppia genitoriale.

Il fallimento della fase di attaccamento avviene, infatti, anche per una inadeguata narcisizzazione, data da una carenza di rispecchiamento degli elementi di grandiosità e di potenza, necessari per strutturare una forte fiducia in se stessi, e che solo in un secondo tempo devono essere soggetti a frustrazioni adeguate allo sviluppo.

Se Valore e Potenza non trovano rispecchiamento nel mondo materno, e il bisogno di venire valorizzate si scontra con una realtà in cui le donne/madri non lo sono per nulla o non abbastanza, la bambina andrà nella casa del Padre (Stevens, 1992), dove però alberga da molto tempo il mito della madre perfetta, unica responsabile della cura dei figli. In ogni dove c'è madre e poco donna. 

E’ normale chiedersi dopo tutto quello che è stato qui detto, come sia possibile per madri a sua volta carenti, prive di soggettività, cresciute in un sistema i che ripete stereotipi collettivi, stabilire una relazione che nutra il senso di soggettività della figlia femmina.

Insomma difficilmente una donna/madre che non si è individualizzata, ma ha aderito a schemi sociali come quelli sopra esposti riesce nell'arduo compito di guardare alla figlia come essere unico, rafforzarne le peculiarità, sostenerla, farla sentire forte, potente, capace, rimandare un immagine amata (dell'amore che vede le differenze e le esalta) tanto da avere una fiducia in sé stessa tale da poter mettersi alla prova, per poi vivere le proprie frustrazioni, separandosi, con la forza che il buono specchio materno le ha permesso, in modo che abbia la forza di spingere oltre e formarsi, misurarsi, cambiare, sperimentarsi nel mondo, all'esterno, costruendo una donna a sé stante, con una propria individualità, che riesce permettersi delle differenze da una madre che può (proprio perché adeguata e allora separata) vedere anche come mancante (la perfezione inchioda a un'emulazione sterile, non permette all'altro di sentirsi bravo nella ricerca di altro, ma sempre intento ad arrivare al punto di perfezione imposto dal modello), senza annientarla ed annientarsi, una donna che non deve necessariamente basare il proprio valore di sé nell'essere tutto- per-l'altro.

Negli ultimi anni la trasformazione dell’imago collettiva è cambiata dalla donna-mamma verso la donna fisicamente attraente che usa le armi della seduzione per affermarsi, ma anche questo spazio scevro dall’idea di maternità non arriva ad essere conquista di una soggettività. Un finto movimento che in realtà ripropone le stesse trappole. La donna seduttrice attrae solo attraverso un corpo-oggetto, giovane, levigato, plastificato, rendendolo luogo di affermazione di sé. Anche qui la narcisizzazione femminile è stata carente. 

Torniamo perciò al nostro rapporto madre-figlia.

La mamma che permette la separazione è colei che può guardare all'altro in quanto tale, perché la propria individualità è formata (Anima e Animus) , strutturata, non è vincolata al solo valore che ha nell'altro (figlio/a): il suo valore resiste anche alla sua separazion. Stiamo parlando di una donna con le proprie passioni, non perfetta, ma sufficientemente stabile, che può ammirare nel figlio/a le particolarità che lo/la allontanano da lei. Quella donna può essere attaccata dal figlio. Il figlio sa di essere amato e può staccarsi, vedendo come "altro da sé" il caregiver, un essere forte che garantisce comunque la sopravvivenza e che rimane, permettendo la separazione. Lo può attaccare perché non lo distrugge (né realmente, né nell' imago interna). La madre rispecchia  in questo caso un'aggressività necessaria, buona, non distruttiva, ma utile per andare via tenendo dentro di sé il buono della relazione, che rimane.

La madre carente non può essere vista dal bambino come essere separato, il bimbo infatti non può avere una raffigurazione mentale di una madre deficitaria proprio per la sua dipendenza da lei, in quanto caregiver. 

Lo scoprire assenza, svalutazione, negli occhi paterni o materni se non addirittura odio porterebbe ad un crollo psichico del bambino (non può tollerare di non essere amato), ecco perché l’inadeguatezza materna viene assunta dal figlio/a come inadeguatezza personale  e l’immagine della madre viene scissa. Non si vede il negativo.

Questo meccanismo opera in ogni situazione di maltrattamento in cui la donna non vede chi ha davanti, ma solo l’immagine dell’altro costruita per evitare l’angoscia del vuoto. 

Può succedere che il maltrattamento da parte del genitore, fisico o psicologico provochi una attivazione maggiore del sistema di attaccamento, spesso verso la persona che abusa del bambino, persona che rappresenta allo stesso tempo il pericolo e la speranza della sua cessazione (Fonagy, Target, 1999). Il maltrattante viene tenuto stretto, viene cercato di più, perché lui/lei è necessario, tortura, ma può far smettere tutto e se il bambino è abbastanza buono (visto che per la scissione non è il  maltrattante il cattivo)tutto andrà bene.

Questo spiegherebbe l’impossibilità da parte di alcune donne maltrattate, di prendere le distanze dalla figura amata e temuta del maltrattante, e il rimanere in quella situazione speranzose che l’altro capisca e cambi. Si oscilla tra il pensare che l’Altro abbia ragione, perché la società pensa così, a considerare gli atti violenti come una manifestazione di fragilità del maltrattante, che quando si pente dimostra d’essere bisognoso di comprensione. 

In questo sistema di scissioni di sé e dell’Altro, il negativo non esiste. Spesso il pensiero è “Se non riesco a cambiare lui e non riesco a cambiare la mia vita è perché non valgo niente”.

Si arriva alla denuncia dopo che si è provato di tutto e quasi sempre a seguito di  un episodio particolarmente violento che ha messo a repentaglio la vita della donna e /o dei figli.

Nel rapporto con il maltrattante esiste la stessa tipologia di asimmetria che si era verificata nell’infanzia tra la bambina e il caregiver con una effettiva e mai risolta dipendenza patologica. Uno degli aspetti più importanti da affrontare con le donne vittime di violenza è la rabbia, a volte estremamente visibile, a volte nascosta.

Di solito nessuna di queste donne è veramente cosciente della quantità di rabbia che ha addosso, mentre molto spesso è percepibile da chi le sta attorno. Il primo passaggio è quello di riconoscerla ed accettarla. Una delle paure più grandi è quella di essere viste come “lui”. La rabbia fa male per chi l’ha subita e queste donne la sopprimono pensando sia un bene. In realtà la rabbia serve, è il motore che aiuta la separazione e porta a un’individuazione necessaria. E’ una parte di sè da fare propria.

 

Sarebbero tante ancora da dire le cose su questo tema, troppe per essere trattate in modo esaustivo in  un breve articolo, spero solo di aver dato qualche spunto di pensiero. 

Un aiuto a questa situazione, come spero di avere in qualche modo trasmesso, rimane il cambiamento di un pensiero di base insito nel substrato sociale, uno sradicamento dell’ottica androcentrica con cui ancora funziona il mondo che ci circonda. 

 

Erika Berton

 

 

 

 

Bibliografia

- Accati L. (1998) Il mostro e la bella. Padre e madre nell’educazione cattolica dei sentimenti, Milano, Cortina, 1998.

- Bourdeau P. (1998), Il dominio maschile. Milano, Feltrinelli, 1998.

- Barducci M. C. (2011), Specchio delle mie brame. Narcisismo femminile e passione amorosa, Roma, Edizioni Scientifiche Ma.Gi., 2011

- Barducci M.C., Bessi B., Corsa R. (2018), Vivere Barbablù, Roma, Edizioni Scientifiche Ma.Gi., 2019

- Stevens C.T. (1992) “Che cos’è l’Animus e perché ci interessa?”, in N. Schwartz-Salant, S. Murray (a cura di) cit.

- Fonagy P., Target M. (1999) Attaccamento e funzione riflessiva, Milano, Cortina, 2011.