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Joker: la verità non esiste!

 

Chi decide cosa fa ridere?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho visto Joker, come molti di noi, spinta anche dalla curiosità del mormorio incessante su questo film. Da cinefila mi chiedevo cosa lo rendesse così forte da causare tanto allarmismo, tanto interessamento. Certo, il fatto di parlare di un antieroe così conosciuto e “spiegarne” le origini ha il suo fascino, se poi l’ interprete è un Phoenix strepitoso, beh, abbiamo un bel po’ di elementi. 

Il film è ben riuscito, la musica e l’attore fanno tanto, tantissimo per rendere il film d’impatto.

La storia è stata letta e riletta oramai, interpretata in modo splendido da molti analisti (anche se Phoenix non voleva creare, a quanto ha detto, un personaggio che desse la possibilità di essere incasellato da patologie analitiche). Provo comunque a fare un punto per poi andare avanti.

Si parla di Arthur Fleck, un giovane uomo affetto da una patologia che lo spinge a ridere rumorosamente, convulsamente, fino quasi a perdere il respiro quando si trova in situazioni per lui ansiogene. Il suo sogno (suo veramente?”metti una faccia sorridente”) è quello di diventare un comico bravo e ci prova, in tutti i modi, con il suo trucco da clown, per le strade, negli ospedali, al cabaret, ma è bullizzato, umiliato, preso di mira. Risponde a tutto con sottomissione, una sottomissione insegnatogli/impostagli dalla madre, con cui vive, donna estremamente delicata, che vede il mondo in bianco e nero, anzi prevalentemente di un colore solo, e scinde le cose davanti a sé, parlando e scrivendo incessantemente ad un certo Thomas Wayne, multimiliardario aspirante sindaco della città, idealizzato dalla madre, che a un certo punto svelerà ad Arthur essere suo padre, avuto quando lavorava per lui, ma poi tenuto nascosto per convenienza sociale (“ho firmato delle carte”).

Arthur, condannato a ridere in momenti difficili, fuori luogo e per questo visto con disgusto in una società che non tollera le differenze, perde a mano a mano tutto. Perde il suo momento di terapia per taglio dei fondi, le medicine che lo aiutano ad integrare le parti di sé e il lavoro, a causa di una pistola datagli da un collega in modo amichevole,  ma in realtà per metterlo nei guai. La pistola gli cade in uno spettacolo all’ospedale per pazienti pediatrici ed è licenziato. 

Quella pistola lo fa sentire strano (non è un caso l'abbia portata in un reparto pediatrico, mettendo in pericolo i bambini ...passa dall'altra parte, quella dell'aggressore,), innesca il lato nascosto di Arhur, che può difendersi ora dai soprusi e dalle violenze, cosa che fa in metro, quando viene attaccato da tre bulli per il solo gusto di prendersela con qualcuno, lui che non era riuscito a difendere la ragazza (come la madre probabilmente da piccolo) dagli stessi bulletti (rif. Arancia meccanica).

Da qui un rendersi conto che quegli atti (l’assassinio dei tre) non lo fanno poi stare così male, e inizia il passaggio di Arthur all’altro lato, quello tenuto per troppo tempo a tacere, troppo scisso, non integrato perché la madre non lo regge (vedi scena dello sparo in casa). Arthur va dal presunto padre che gli rivela una parte di “verità” su di lui, innescando l’idea di una madre malata, che avrebbe inventato una relazione fasulla. In tutto questo non si vede mai un pò di tenerezza verso di lui, nessuno pur sapendo come sono andate le cose si comporta in modo tenero con Arthur ed è paradossale,(“Ma cosa avete tutti?…chiedo solo un pò di tenerezza, un abbraccio magari..”) poco verosimile: il mondo fuori è dipinto come solo crudele (è la visione di Arthur, la critica alla società cinica del film o lascia a intendere che possono esserci altre versioni della cosa?). Solo il nano, le terapeute-assistenti sociali sembrano avere un pò di empatia. 

Arthur scopre, rubando, la “verità” sulla sua vita, cioè di essere stato adottato da una madre malata che ha lasciato il suo compagno abusare di lui più volte. Questo sarebbe l'evento traumatico che avrebbe innescato la sua risata. Si è parlato di psicologia “alla buona” (La Repubblica,domenica 1 settembre) e si, sono d’accordo, ma credo che il film fosse pensato per essere alla portata di tutti, e forse per fare successo (diciamocelo!) visto il personaggio di cui tratta, non è un vero e proprio film sulla malattia (vedi cosa ha detto Phoenix sul personaggio, già citato sopra), ha altri scopi e altri intenti, con la loro dignità (anche solo dare un altro spessore, un’altra sfacettatura al filone comix e una certa libertà artistica che vuole confondere, proprio come lo è Joker, ridendosela!!)…

Tornando al film…

La risata di Arthur ha delle spiegazione,(nel disturbo psicotico di Arthur, nel trauma subito fin da piccolo e nell'ambiente malato in cui viveva, cose l'un l'altro collegate); la madre ha mentito, la sua vita ”è una commedia, non una tragedia” dice (sarebbe il contrario in realtà, ma lui decide di riderne)….Trasforma di nuovo le cose e si impossessa del lato oscuro. Ride del male che non lo tocca più. Ride di quello che agli altri non fa ridere, che è ritenuto fuori luogo, macabro (a ragione). Si va oltre, oltre i limiti del "sano", oltre i limiti accettabili. Arthur si disfa delle persone che gli hanno fatto male, lo hanno umiliato, e si mette la maschera che ora diventa il suo nuovo viso, cambia fisionomia (Phoenix è grandiso!!) diventa sicuro, armonico quasi (la danza sugli scalini è meravigliosa!), un idolo per una folla persa, schiacciata da una società che non tiene conto degli ultimi, dei diversi, di chi non è in “regola”. 

In questo film il “pericolo” è quello di perdersi con Arthur nel confine del bene e del male, dove il confine non c'è più, è tutto confuso e il bene e il male, per troppo tempo scissi, ora sono capovolti.  

Ci si identifica con il povero Arthur, lasciato solo con sé stesso, abbandonato, tradito, ingannato, abusato, che ora si vendica dando luogo ad atti violenti, i quali ci paiono giustificati, mentre nulla dell'assassinio lo può essere.

La critica alla società è forte, anche se non diretta: Arthur non voleva esserne l’idolo, ma ci si ritrova e la folla gli restituisce un’identità finalmente accettata, condivisa, anche se "sbagliata". 

La critica al potere che non vede e non aiuta, agisce per sé, non per chi ne ha bisogno, è palese. 

Appare normale la paura d’atti d’emulazione in una società come la nostra, ma questo avviene perché il malessere è tanto e non perché le opere d’arte siano pericolose. Come fa capire il film bisognerebbe curare quando si ha la possibilità di farlo, dicendo la verità il più possibile, dando la possibilità alle persone di essere integrare i loro lati forti e deboli, accogliendo le debolezze, sostenendo le difficoltà, facendo rispettare regole “giuste”.